Stati Uniti, 2024 - 131'
Challengers (2024), diretto da Luca Guadagnino, è un dramma romantico-sportivo che esplora le dinamiche di un triangolo amoroso nel mondo del tennis. La storia segue Tashi Duncan (Zendaya), un'ex promessa del tennis diventata allenatrice, sposata con Art Donaldson (Mike Faist), un tennista di successo in declino. Quando Art partecipa a un torneo Challenger, si ritrova a competere contro Patrick (Josh O'Connor), un tempo suo migliore amico e ex fidanzato di Tashi. Il film esplora temi di amore, gelosia e redenzione, utilizzando il tennis come metafora delle sfide personali e delle dinamiche interpersonali. La colonna sonora, composta da Trent Reznor e Atticus Ross, sottolinea le emozioni intense dei protagonisti.
Per parafrasare André Bazin, ci sono, oggi, registi che credono (ancora) nel cinema e registi che fanno film. Luca Guadagnino appartiene, da sempre, anche negli inciampi di carriera, alla prima categoria, sempre più minoritaria ma, anche, sempre più necessaria per come vanno le cose nella terra delle immagini (e per capire come vanno). E credere nel cinema – perché lo si ama e onora, lo si conosce e capisce, si vive di e con – non significa, semplicemente, fare film che sono cinema (anziché, semplicemente, film) ma, piuttosto, almeno oggi, soprattutto oggi, fare film che ci ricordano che cosa può e sa fare il cinema, e il cinema soltanto – in modo, cioè, cinematografico –, con le immagini, le parole, i suoni, la musica. Tutto questo per dire, intanto, che Challengers, scritto da Justin Kuritzkes (che per Guadagnino ha sceneggiato anche il nuovo progetto, Queer, da un romanzo di William S. Burroughs), non usa banalmente il tennis (e lo sport) come metafora per parlare di vita & amore (tutto è una partita, si vince e si perde ecc. ecc.), ma, piuttosto, usa il tennis come palinsesto per fare cinema (e parlare di cinema). Non soltanto, come è stato detto, grazie al fatto che i due condividono un tempo che si fa durata e, più esattamente, un tempo che si fa azione, gesto, accadimento. Guadagnino – e questo è tutto lavoro di regia, per cui Challengers smette doppiamente di essere “un film sul tennis” – moltiplica la relazione e lo scambio, trasforma il campo in set (le affinità terminologiche sono molto più che un caso, e varrebbe la pena tornarci) e gioca le sue due metà, definite da una linea tanto marcata quanto fragile (lo dimostra l’ultima inquadratura del film), come un paradigma perfetto, reale e simbolico, della relazione tra campo e fuori campo. Challengers è teoria del cinema in azione e dell’azione del cinema, ossia teoria della realtà che si fa cinema [...] Nessun altro sport più del tennis è tanto vicino al cinema per geometrie, interdetti, dialettica tra visibile e invisibile, opposizioni, dualismi. Come nel cinema, ci si racconta una storia, faccia a faccia: il tennis, spiega Tashi, è una relazione. Lo è, almeno, quando è grande tennis (e grande cinema) [...] il film gioca (e si diverte a farlo, senza timori e falso buon gusto) a consegnare all’immagine nuovi modi di cogliere e trascrivere la velocità dei corpi in azione, l’esecuzione del gesto, il legame tra sguardo e azione che è tutto, in fondo, in quell’occhio puntato ossessivamente su un oggetto in movimento (teoria del cinema, appunto). Chi scrive (tanti, troppi) che Guadagnino avrebbe ecceduto in ralenti e accelerati, sbordando la riflessione dalla parte della forma, non ha colto il senso dell’“esercizio” cui egli sottopone il cinema stesso, in un tentativo spesso rischioso di sincronizzare sguardo e azione, gesto della macchina da presa e figure del corpo, punteggi e sentimenti, fino a quell’ultima mezz’ora di film che sconfina da qualche parte – esaltante – tra performance visiva, cinema sperimentale, sinfonia visiva. Guadagnino, appunto, crede (ancora) nel cinema, in modo essenziale e profondo, un modo insieme antico e attualissimo. E Challengers è cinema puro, cinema vero.
(Luca Malvasi, Cineforum)
In Challengers i comportamenti dei personaggi incarnano le dinamiche del campo da gioco/set, un ambiente che assume forme di uno spazio-tempo completamente estraneo alle logiche di una narrazione lineare proprio perché è l’azione che produce una nuova situazione e non viceversa. Luca Guadagnino d’altronde filma il regolamento di conti (la partita finale) tra Patrick e Art come se fosse un western - non è un caso che il film inizi con dei primissimi piani leoniani - il genere cinematografico dove una sottile differenza tra due azioni può produrre una differenza enorme fra due situazioni. Il posizionamento preciso di una pallina da tennis sulla racchetta provoca dunque finalmente un reale movimento nelle dinamiche relazionali degli amici/nemici/amanti attirando la sincerità dello sguardo di Tashi. L’esplosione virtuosistica della regia di Guadagnino negli ultimi quindici minuti è di conseguenza funzionale a esaltare l’atto creativo e sessuale. [...] Challengers è un’opera in cui lo sguardo rappresenta il gesto tecnico per mettere in condizione di significare due segni: un crito-film sulla possibilità comunicativa delle immagini di oggi che nell’urlo liberatorio finale di Tashi Duncan raggiunge l’orgasmo creativo definitivo.
(Emanuele Antolini, Cinefacts)
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